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 Primo Capitolo del libro

 Primo capitolo del libro


Vi vorrei incuriosire inserendovi il I capitolo del libro.


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Capitolo I


 


Il sole faceva capolino tra le fenditure delle imposte, gli uccellini si sentivano cinguettare, come per dirmi buongiorno, ancora assonnata mi rigiravo nel letto, non avevo dormito bene quella notte, anzi, non ero nemmeno sicura di aver dormito.


Mi sembrava di averla passata a fissare il soffitto della camera, con la mente che continuava a rigirare nel tondo; ma dovevo anche essermi appisolata un po’, perché un incubo mi offuscava ancora i pensieri.


Nel silenzio dei primi albori percepii un vago suono in lontananza, mi svegliai bruscamente ma non riuscii a catalogarlo, cercai di rannicchiarmi nel mio caldo nido della notte, mi girai sul fianco sinistro, misi il braccio destro sotto il guanciale, affondai la testa sul cuscino con l'intenzione di riaddormentarmi ma, abbassandomi, mi resi conto che il lenzuolo, durante il sonno agitato della notte, era stato spinto in fondo al letto: tiratolo su mi ci avvolsi, come per coccolarmi.


La voce che mi aveva svegliato, continuava ancora a tormentarmi, qualche cosa mi dava fastidio sulla testa: affondai le dita tra i capelli e mi trovai un becco d’oca tra le mani.


Nel silenzio della stanza sentii qualcuno rumoreggiare in cucina, forse stava preparando la colazione, aprii gli occhi nel chiaroscuro della camera, cercando di comprendere il motivo del mio risveglio.


Un attimo di riflessione e, dopo pochi istanti di smarrimento, ricordai e realizzai; poi, di colpo, fui assalita dal panico.


Avevo sempre avuto bisogno di dormire molto la notte; al mattino, quando mi svegliavo, restavo ancora a lungo in uno stato di torpore e confusione mentale: com’era debole la mia anima, senza difesa contro i sogni e senza salvaguardia contro i risvegli! Mi capitava persino, mentre mi dirigevo in bagno scalza e in pigiama, di essere ancora in sospensione tra sonno e veglia, di andare a sbattere contro lo stipite della porta, perché non avevo gli occhi ben aperti.


Feci un sobbalzo sul letto, mentre una vocina stridente disse: “Oddio è il fatidico giorno!!!”


Ed io ero ancora nel letto a poltrire. In realtà avevo solo paura di affrontare la giornata!!!


Nella mia mente i pensieri correvano all’impazzata, anch’io mi alzai di scatto e mi sedetti sul letto, scesi velocemente, riuscii ad aprire un occhio, lo indirizzai verso la lancetta della sveglia, guardai, misi bene a fuoco: erano solo le sei e trenta.


Cambiai subito idea e mi risdraiai, volevo riappisolarmi, mi attorcigliai al soffice lenzuolo di rasatello blu cobalto, non intendevo spostarmi di un centimetro, desideravo restare in quel letto comodo a poltrire.


Quando, a onor del vero, si aprì la porta ed entrò la mamma, spalancò allegra la finestra con un rumore tale che mi trapassò il cervello, diede l’assalto al letto, mi tirò via il lenzuolo, intimandomi di alzarmi subito.


Alla sua voce non risposi, finsi di dormire profondamente, non avevo per niente voglia di alzarmi, volevo rimanere ancora un po’ in quel luogo protetto.


“È tardi, devi prepararti" ... “Il mattino ha l’oro in bocca”.


“Prepararmi per che cosa? … Sono solo le sei!”


La mamma, con maniere non proprio cortesi, mi buttò giù dal materasso.


“Alzati pigrona e sbrigati, ti aspetta una giornata impegnativa”- borbottò, uscendo dalla stanza.


A quell’ora della giornata il sole fendeva i vetri e la trina di pizzo alla finestra, si rifletteva sul pavimento rosa, emanando una luce profonda ed intensa, talmente forte da scintillarmi negli occhi, quasi ledendoli.


Dovetti proprio tirami su, nuda cercai la sottoveste, mi sdraiai nuovamente quasi per l’ultimo minuto di sonno, tenendomi la testa che sentivo pesante come per non farla rotolare giù dal letto.


Dopo diversi minuti di riflessione, ragionai: avevo davvero ancora tutto da predisporre!!!


Era necessario sollevarsi e mettersi in moto.


Con la mente confusa e uno strano batticuore, balzai giù dal letto in preda alla più grande agitazione, ricordandomi improvvisamente del giorno zero, quello che la massima parte degli uomini non vorrebbe mai affrontare, e sinceramente anch’io non ero immune da quel pensiero; avevo paura, consapevole delle tante cose da fare prima di immergermi in quella misteriosa giornata.


Mi alzai di scatto e corsi, ma ero ancora intontita e frastornata.


Mi era già capitato un’infinità di volte e, suppongo che sia capitato anche ad altre persone, di svegliarsi di soprassalto e di sentirsi sospeso come bolle di sapone vaganti nell’aria; di non distinguere il reale dall’irreale, di non riconoscere l’immaginario lasciato dalla nebbia della notte, quando la tenebra porta con sé dubbi, fantasmi, inquietudini. In quel momento avevo la debole sensazione di vivere ancora un po’ nell’incubo.


Gli incubi e i sogni hanno il potere straordinario di determi-nare l’umore del giorno e le visioni oniriche subiscono l’influsso delle gioie e delle difficoltà del dormiente, dove fantasia e realtà si mescolano confusamente, lasciando spazio alle angosce e distorcendo la realtà.


I sogni sono esperienze psichiche soggettive, inquietano il riposo notturno e la vita diurna; i sogni che ci ricordiamo male sono menzogneri, mentre quelli che ci ricordiamo al risveglio ci lasciano assopiti a lungo, sono messaggeri di dubbi e ci rivelano le nostre incertezze. E, al mattino, mentre il corpo riprende il processo vitale e razionale, la mente può essere ancora offuscata e drammatizza in incubi la realtà, lasciando spazio all’afflizione; e, laddove nella vita di tutti i giorni ci sono avvenimenti importanti o la tensione è alta, immancabilmente si sogna sempre che tutti i nostri progetti vadano a finire male.


Nella nebbia del mio campo visivo andai in bagno e, come al solito, sbattei contro la porta. Ahi! Ahi! Ahi!”, gemetti, rammentandomi tutto.


La prima cosa da fare quando si arriva in bagno è lavarsi i denti; infatti presi una piccola dose di dentifricio e spazzolai energeticamente per paura dell’alitosi, poiché avevo letto da qualche parte che, per farla sparire, bisogna cominciare con gargarismi d’acqua salata, mescolata con qualche goccia d’aceto; parallelamente bisognerebbe masticare foglie di menta, timo o rosmarino.


Colsi una sagoma smarrita sulla superficie dello specchio e subito dopo ne distolsi lo sguardo.


“Oddio, chi è quell'immagine riflessa?”


Ci misi una frazione di secondo per rendermi conto che era la mia.  Guardandomi riconobbi il mio profilo, tenevo gli occhi cerchiati e lividi, il viso pallido, i capelli afflosciati e lo sguardo spiritato, mi sembrava di vivere in un altro pianeta, avevo la testa tra le nuvole.


Mi pulii il viso e mi misi a spazzolare i capelli; mi fermai con la spazzola in mano e mi guardai fissamente nello specchio, come perduta nel vuoto, chiedendomi come avessi fatto a ritrovarmi in quella situazione.


Non riuscivo a credere di essere arrivata fino a quel punto, non riuscivo a credere che fosse realmente accaduto, che fosse capitato proprio a me.


Quella che stavo per compiere era una delle azioni più avventate ed audaci che avessi mai affrontato in vita mia. Mi feci forza e coraggio.


Pensai alle miriadi di cose da fare, ed ero terrorizzata di fronte alla situazione che si stava prospettando, non ragionavo, avevo molta paura, mi sentii quasi mancare ed ebbi l’impressione che ogni gesto fosse inconsapevole, istintivo, meccanico, programmato ma inconscio.


Considerai che quello strano intontimento fosse solo dovuto all’emozione, ma presto, sentendomi debole, mi resi conto che avevo solamente bisogno di zuccheri, così andai verso lo scaffale dei dolci, presi un vassoio, era ancora incartato, lo aprii, all’interno c’erano paste di tutti i tipi: bignè, cannoli, cavolini, funghetti.


Istintivamente afferrai un cannolo, era ancora caldo.


Era tanto che non mangiavo un cannolo caldo e, per riprendermi appieno, avevo bisogno di un buon caffè.


Non riuscivo a connettere al mattino se non bevevo il caffè e l’espresso pone rimedio a tutto, dicono.


Preparai la moka, la misi sul fuoco, poi l’acqua prese a bollire con un sibilo leggero che via, via, crebbe d’inten-sità, aumentando il rombo della caffettiera. Appena il caffè fu pronto, lo versai nella tazzina e lo bevvi con gusto, assaporandone l’aroma. Lo deglutii e mi sentii rinfrancare il corpo e schiarire le idee. Ormai ero quasi completamente sveglia e avevo riacquistato il mio equilibrio mentale. Cercai di organizzarmi, compilando elenchi mentali di quello che avrei dovuto fare nel corso della mattinata, prima di dedicarmi appieno a quello strano giorno.


Mi sforzai di essere rilassata, ma ero tesa come una corda di violino.


Spazzolai via dalla vestaglia le briciole della pasta e presi un altro cannolo, mi avvicinai alla finestra del salotto, ne sollevai la tenda e l’aprii, inspirando l’aria pregna dei fiati delle rose fiorite della terrazza, anche i raggi del sole penetrarono dalla grande finestra, dando alla casa un aspet-to allegro ed arioso.


I bagliori filtrati dai vetri facevano scintillare in giro gli innumerevoli oggetti di cristallo, i soprammobili, le coppe d’argento e i prismi del lampadario, era come se il sole con il suo splendore avesse acceso i cristalli e quei luccicori fecero riflettere sulle pareti piccoli arcobaleni danzanti, dando alla stanza vestita a festa, un aspetto di nobile gaiezza.


Strinsi la bollente tazzina di caffè tra le mani, ne presi una sorsata: era rovente, tanto che mi bruciai la punta della lingua e, mentre aspettavo che si raffreddasse, guardai nel vuoto e cominciai a ricordare la prima volta che avevo assaggiato un cannolo caldo farcito di crema chantilly.


Mille strani ricordi si affollarono nella mente, mi apparve la casa della zia e, senza che lo potessi impedire, le candide immagini della mia infanzia mi passarono davanti agli occhi, portandomi indietro negli anni, come il proiettore luminoso di un cinematografo: mescolai i ricordi alle immagini annebbiate che affluirono come in una strana luce temporale, ove i colori e le forme assumevano una vaghezza blanda.


Rividi il vassoio d’argento stracolmo di dolcetti che, puntualmente, la zia portava tutti i pomeriggi nella stanza del tè, ed io adoravo starmene lì a far salotto, abbuffarmi di dolci, mangiare e chiacchierare.


Sentii suoni, rumori e parole che avevo perduto nel tempo.


“Dopo averli riempiti con la crema, si mettono in forno per 10 minuti ad una temperatura bassa, e servili ancora caldi… Mi raccomando!!! Se vuoi fare una bella figura con i tuoi ospiti, devono essere serviti alla temperatura giusta”. Queste erano le esatte parole della zia che mi risuonavano ancora nella mente con la stessa enfasi.


L’immenso amore che la zia aveva per la cucina, era maniacale e il fatto che vi trascorse la maggior parte della vita, ne aveva fatto una cuoca perfetta: le sue pietanze avevano un sapore succulento unico, grazie anche ai tempi di cottura giusti e precisi; per andare d’accordo con la zia, le cotture non potevano sgarrare nemmeno di un minuto.


L’arte culinaria era diventata una parte di lei, una passione più che morbosa, quasi patologica.


La zia era la donna dalle mille sfaccettature, possedeva una grazia in tutto quello che faceva, e le riusciva pure bene.


Purtroppo la morte dello zio le aveva causato una forte depressione: Edoardo, morendo, l’aveva lasciata mol-to sola; andandosene era come se fosse morta anche una parte di lei. Ed io, nel tentativo di aiutarla a farsi forza, decisi di passare qualche giorno a casa sua. Mi sembrò un pensiero carino, visto che, a causa di una strana forma di asma, mi aveva ospitato quando ero bambina per diverse estati. La conoscevo bene e sapevo come prenderla.


Quell’estate, poi, non potei andare in vacanza, dovevo prepararmi per l’ammissione al corso di notaio, le mie amiche erano tutte partite per i mari Caraibici, non mi andava di restare da sola a Milano, per questo decisi di studiare a casa della zia in Liguria. Così facendo avrei potuto fare come ai vecchi tempi: qualche giorno di mare, notti di chiacchiere, risate pazze.


La zia, quando mi rivide dopo tanti anni, stentò a riconoscermi: la bambina dentona tutta eufemie e lentiggini, un poco cicciotella, si era trasformata, come per metamorfosi, in una bella ragazza alta, slanciata, capelli lunghi lucenti che scendevano fino a mezza schiena, occhi grandi ed espressivi. Nicol era una persona fantastica, era diventata la moglie del nobile più in vista della città, appartenente a una delle famiglie più influenti di Sarzana; ma ora era cambiata, non era più la donna forte ed energica di molti anni prima, era persino diventata taciturna.


La vecchiaia e l’esaurimento l’avevano trasformata: passava ore e ore seduta davanti alla stufa di ghisa avorio decorata da piccoli disegni azzurri, o davanti alla finestra e si accontentava di ammirare il paessaggio, le nuvole passare, l’infinito, le persone transitare ed aspettava l’estate, l’in-verno, la pioggia, il sole, il passeggio della gente, pensava che il vero amore fosse quello di lasciarsi morire per raggiungere lo spirito del suo amato.


Lei e lo zio potevano stare a lungo senza parlare, mano nella mano per interi pomeriggi, contenti di essere lì, insieme, nel salotto di casa, a contemplare, silenziosi, qualsiasi cosa ed erano soddisfatti di assaporare unitamente cose futili pur di stare congiunti, erano capaci di stare così all’infinito, in qualsiasi tempo e in qualsiasi stagione, aspettavano, aspettavano, aspettavano, chissà che cosa, fissavano intensamente il fuoco, oppure fuori della finestra il sole tramontare, piaceva loro vederlo diventare rosso e sparire dietro il monte, guardare un volo d’uccello, spiare una coppia di innamorati, il campanile della chiesa, amavano la pioggia e il sole, la notte e il giorno, forse ave-vano capito da alcuni segni impercettibili che per loro la luce stava per vacillare e spegnersi per sempre, atten-devano ed aspettavano l’unica cosa che sarebbe arrivata presto.


La zia compiva ogni giorno gli stessi gesti, nello stesso ordine, senza nemmeno rendersene più conto, forse era questa la forza di andare avanti; il fatto era che li aveva compiuti per la maggior parte della vita.


Aveva gli occhi offuscati, persi nel vuoto, teneva sempre una collana di perle stretta in una mano leggermente tremante, ed ogni tanto l'avvicinava alle labbra mordicchiandola. Era notevolmente dimagrita, le ossa delicate non reggevano più la sua corporatura ingobbita, le sue spalle si erano leggermente incurvate, erano evidenti i segni dell’invecchiamento.


La morte dello zio le aveva lasciato un vuoto, quel vuoto è sempre uguale per tutte le vedove, ancora innamorate dei mariti, ma individuale, quel vuoto che prende la forma del dolore e che ogni donna tollera patisce in maniera personale, comportandosi di conseguenza a seconda del carattere.


Vedendola così inerme, afasica, cercavo di farle forza a parole confortandola ed invitandola a risvegliarsi da quel letargo “umano” e a  ricominciare a vivere.


“Vivi, devi vivere la tua vita…”. “Lo zio non ha bisogno di te! I morti hanno la compagnia degli angeli.”


Ed ella, dopo una lunga riflessione, mi rispondeva: “Quelli buoni ce l’hanno! Gli altri!… Chissà!”


Lo zio, per non sentirsi solo, doveva essere un santo.


”Ziaaa, quando siamo vivi abbiamo bisogno degli altri, ed io sono qui per farti un po’ di compagnia, dai, su, riprenditi!“


Nel pomeriggio di cui sto parlando ero seduta in salotto, in un angolo del divano con i piedi sistemati tra il tavolino e la poltroncina avorio. Era l’ora del tè, sentii il passo lento e pesante della zia che, a causa delle gambe gonfie, stava tutto il giorno in pantofole, entrò nel salotto e, metodica come sempre, appoggiò il solito vassoio d’argento sul tavolino intagliato color oro. Quest'ultimo era posizionato al centro della stanza tra due poltroncine dorate in stile barocco, foderate di broccato avorio.


Quel cantuccio della casa era molto confortevole, curato ed arredato come solo una nobildonna poteva fare, pieno di mobili preziosi scrupolosamente ricercati: alla parete sinistra una consolle oro con specchiera ad intaglio ovale, all’altra di fronte un solo dipinto, un paesaggio, visto da un castello durante una bufera di neve, poi tende in velluto bordeaux e un lampadario in cristallo a gocce, accerchiato da simpatici cherubini, vestiti di rosa, che sorridevano.


In quella stanza la zia, alle cinque pomeridiane, mi offriva la merenda ed io, quando ero bambina, adoravo stare lì a far salotto.


Per la zia prendere il tè, alle 5 del pomeriggio, era diventato un rituale, lo stesso metodico da anni, era in sintonia con il suo essere borghese, in nome del quale lei arricchiva il suo tavolino di varie squisitezze o come direi adesso “schifezze assortite”.


Trafficava con i colini, disprezzava le bustine, sistemava le zollette con estrema cura e precisione in un’antica zuccheriera di porcellana, placcata oro con un rubino al centro, con estrema cura e precisione. Amava muovere le sue piccole mani tra i piattini dei dolcetti, la teiera, la lattiera, le mini posate d’argento; e non dimenticava mai di accendere le candeline profumate al bordo del tavolino o di disporre il mazzolino di roselline rosse in sintonia con l'ambiente.


La zia Nicol era in controluce, non riuscivo a vederla in faccia, ma le sue braccia mi parevano esili: mentre alzò la teiera mi accorsi che era notevolmente dimagrita e, quando si voltò, notai il viso appassito e scavato, su cui gli zigomi parevano diventati più grandi, più sporgenti, gli occhi le si erano infossati, aveva acquisito un’espressione triste e il tutto le dava un’aria spaurita, accentuata dalle borse sotto gli occhi. Ma a guardarla bene il suo sguardo era ancora acuto, mi esaminava scrupolosamente, le sue labbra si erano fatte ancora più fini, i bei capelli erano diventati bianchi, raccolti da treccia, una volta folta e bella, ora fattasi misera, appuntata con le forcine sulla nuca, stretta in un piccolo chignon.


Il tè verde era bollente, profumato e confortevole come sempre, a volte con pezzettini usciti dal colino che ne turbinavano la tazza.


“Era tanto che non bevevo un tè così buono”, alitai davanti alla tazza fumante, quasi sospirando e lasciando che il vapore mi riscaldasse il viso.


Zia  Nicol annuì raggiante per il mio apprezzamento, da giovane aveva i capelli castani, gli occhi azzurri, vivaci e birichini, piccola, di corporatura esile, ma energica.


Non proveniva da una famiglia ricca, ma aveva i modi garbati e gentili di una principessa.


Lo zio Edoardo, sposandola, non aveva incontrato l’approvazione dei genitori, né essi l’approvarono nel tempo: uno scontro che infiammò i rapporti per sempre, causando una tensione familiare persistente.


Era una donna a cui non mancava nulla, appariva la moglie più in vista della cittadina, ma il suo non era stato un matrimonio infelice, anzi, poiché sapeva rendere la vita gioiosa anche a chi le stava accanto; era piena di premure, dopo la morte del figlio si era dedicata senza riserve alle cure del marito.


Sapeva fare tutto, era piena di virtù: cucinava, cuciva, ricamava, giocava a canasta, scriveva, dipingeva le piaceva raccontare storie e sapeva consolare, placare, ed io da ragazzina ne ero innamorata pazza, mi piaceva stare lì, accanto a lei, ore ed ore ad ascoltarla.


Nelle mie memorie conservo ancora i bei momenti trascorsi assieme; stupendi e meravigliosi pomeriggi di gioia e divertimento. Avevo vissuto delle belle giornate con lei e le amiche del ricamo che ogni giovedì si riunivano a casa sua: vederle ricamare era come tessere una tela di gioia.


Il giovedì era l’unico giorno che, invece di preparare il tè, zia dispensava cioccolata calda ai figli delle sue amiche.


Come mi sembravano lontani quei pomeriggi felici. Se solo, avessi potuto tornare indietro per un momento sufficientemente lungo per rimpinzarmi a dismisura, abbuffarmi senza sosta e senza problemi di linea di quelle prelibatezze che mi mettevano allegria: dolci, cannoli caldi, cioccolata e spungata sarzanese di “Ziacioccolet”, come la chiamavamo noi ragazzini!


La soddisfazione che provava nello stare in compagnia era incommensurabile, godeva nel raccogliere accanto a se più ragazzini di quanti la casa potesse ospitare, perché il giovedì pomeriggio non faceva che sfornare dolcetti, considerandosi una privilegiata.


Nessuno l’avrebbe mai eguagliata nella preparazione della cioccolata in tazza, e zia la faceva con tanto amore ed aveva un sapore squisito, come non ho mai trovato da nessun’altra parte, anche perchè metteva molta cura in tutte le fasi della preparazione, era scrupolosa persino nella scel-ta degli ingredienti: cioccolato e latte di purissima qualità. La lavorazione e la cottura erano due fasi eseguite con sequenza scrupolosa poiché una cottura sbagliata poteva far sì che il cioccolato diventasse disgustoso perdendo le sue caratteristiche, se poco cotta, o bruciato se troppo cotto.


Mi ripeteva sempre: ”Stai ben attenta, l’imperizia di cuocerlo può bruciarlo”.


Zia era sempre accorta in cucina e dava ai cibi tempi di cottura adeguati e precisi, cercava di organizzare i suoi impegni in modo tale da avere la tranquillità necessaria per preparare piatti succulenti e cotti al punto giusto.


"Questo è uno degli innumerevoli segreti che si acquisiscono solo con la pratica”- mi ripeteva spesso.


Come la spungata, dolce tipico sarzanese, e in questo giorno, di cui sto parlando, potei, dopo tanti anni, assaporarne una fetta.


Nicol ne aveva dimenticato la ricetta originale, in quanto l’ingrediente principale era la marmellata di fichi, ma lo zio era allergico ed ella decise di variare leggermente la ricetta pur di prepararmi questa prelibatezza di cui ero golosissima. Torta veramente squisita, varrebbe la pena di assaggiarla almeno una volta nella vita; il suo gusto è misto tra un dolce, dolce ed un sapore aspro,  amarognolo. Rivedo ancora lo zio Doà seduto sulla poltroncina di pelle bianca, quella preferita dalla zia per ricamare, gustarne un primo boccone, chiudere gli occhi ed esclamare:


”Che lussuria!” e con espressione davvero appagata, proferire: “Questa è la pietanza degli dei”!


Il profumo di quella prelibata leccornia aleggiava nell’aria per parecchi giorni dopo la sua preparazione, impregnando d’aroma la casa della zia.


Dopo il mio arrivo, in pochi giorni, la zia si riprese, la donna dalle mille sfaccettature stava riaffiorando e, per passare il tempo mi fece un vestitino rosso, dal momento che possedeva una manualità che ho trovato soltanto in lei.


Sento che non dovrei raccontare tutte queste cose, ma non posso farne a meno. Mi accorgo di non essere più l’attrice della rappresentazione ma la spettatrice: improvvisamente “mi era caduta nel cervello quella minuscola goccia scarlatta” e rivedevo percorrere nella mia mente le immagini più belle della mia vita, e il tutto mi riportava indietro nel tempo alla riflessione e al dolce ricordo.


In un incantevole posto caratterizzato da una lunga striscia di terra tra il blu del mare Ligure e il verde dell’Appennino è posta, come ognun sa, la cittadina di Sarzana,


                      “Che per cammin corto”,


segna il confine e divide la Liguria dalla Toscana. Si estende fin quasi alle pendici delle Apuane, costeggiata dalla valle del fiume Magra, aperta ed accogliente; tra tutte le città d’Italia gode di una fama nazionale, mostra un orgoglio cittadino, dato che é fortemente ancorata alle tradi-zioni, ricca di storia, cultura, fascino, colori, luogo di culto e incontro tra gli uomini, è capace di attrarre l’attenzione del mondo circostante con spettacoli, festivals, giornate culturali.


Codesta cittadina di circa diciannovemila abitanti è organizzata e governata da far invidia e concorrenza ad una metropoli, pare una capitale in miniatura. Non capisco perché l’amministrazione comunale non ne abbia ancora richiesto la provincia.


I suoi maggiori proventi giungono dal turismo, dal commercio, una volta conosciuta anche per l’agricoltura, oggi ancor più per la storia, l’arte, i suoi palazzi d’epoca, i bei negozi e per le innumerevoli iniziative che di sovente si svolgono durante l’arco dell’anno, nelle belle vie del centro storico.


Sarzana ha portato con sè molti miti, questo è il paese che non solo si presta ai miti, ma essi sembrano pure metterci radice e far storia.


 


Dante che ne IX Canto del  Paradiso dice:


 


“Di quella valle fu’ io litoraneo


Tra Ebro e Macra, che per cammin corto


Parte lo Genovese dal Toscano.


 


ai genitori di Napoleone che vissero qui per un breve periodo, a Farinata, Cavalcanti, Fiasella …


La cittadina è cinta da mura composta dal possente recinto pentagonale del XVI secolo e da massicci torrioni rotondi, risalenti al Medio Evo; vista dall’alto assume la forma di un porcellino. E  le città cinte da mura risultano assai compatte e ordinate e le loro piante quando seguono la perfezione riproduce spesso la forma di un animale, perlomeno questo era quello che diceva lo zio.


Sarzana negli ultimi anni è anche migliorata grazie ai decori e alle ristrutturazioni degli arredi urbani: strade, piazze, edifici e, con la grande crescita economica, si è arricchita con palazzi e bei negozi di qualità.


Per questo le vie della cittadina sono sempre piene di gente soprattutto nei fine settimana, colma di turisti richiamati dalle manifestazioni artistiche e culturali capaci di incontrare i gusti più disparati, che fanno conoscere l’animo vero ed autentico della città.


Gli appuntamenti stagionali sono molteplici, ma fiori all’occhiello restano la mostra dell’antiquariato che viene allestita nella Cittadella, la soffitta nella strada e, da qualche anno, anche il Festival della mente, Atri fioriti, il Festival del cioccolato, Sarzana in tavola, il Palio dei rioni, Festival Napoleon, ecc.


Negli ultimi decenni codesto luogo è diventata luogo di ritrovo e conversazione anche per i vip, che la preferiscono ad altre città, grazie all’accoglienza e all’intimità.


Proprio nel corso di una di queste manifestazioni mi è cambiata la vita, si perché a Sarzana c’è vita in tutte le ore del giorno, poiché tutti i bar, i ristoranti e le pizzerie sono sempre affollatissimi e al completo fino a notte tarda, diventando il polo di attrazione dei turisti che approdano dalle terre limitrofe. Cittadina che d’estate non va in ferie, anzi tutti i negozi e gli esercizi sono aperti fino a notte tarda. Non esistono più giorni festivi o feriali, per i sarzanesi sono tutti uguali. La folla dei passanti si avvia per ogni dove fino alle ore piccole, soprattutto nella seconda e terza settimana d’agosto, quando iniziano la fiera dell’antiquariato e la soffitta nella strada, dove oltre 180 bancarelle espongono le loro merci nelle strade del centro storico.


Visti dall’alto i turisti hanno l’aspetto di un mare di teste, tutte le vie brulicano di folla, onde che crescono di continuo e, come gli affluenti dei fiumi, si riversano ad ogni istante nella foce con nuovi flutti di gente; e durante   la mostra antiquaria le persone si dirigono nelle vie delle bancarelle.


Per entrare nel centro storico bisogna oltrepassare due antiche porte d’entrata a forma d'arco: Porta Parma e Porta Romana, al centro sorge il palazzo Comunale, circonciso quasi a ferro di cavallo, da case e portici, che racchiudono una delle piazze principali, Piazza Matteotti.


A pochi metri d’aria, forse cento, sorgono le belle chiese, quella di Sant’Andrea e, poco più in là, la cattedrale di Santa Maria Assunta.


Non è cosa facile trattenersi dinnanzi ad una bancarella o una vetrina, senza essere spintonati, urtati contro gli angoli dei banchetti; le persone girano tra essi incuriosite dagli oggetti vecchi che riportano indietro nel tempo.


C’è sempre qualcosa di familiare che ci riconduce alla nostra infanzia, la radio del nonno, la bambola della zia, il vaso o il piatto della mamma, le balestre, le poltroncine, i tavolini o le consolles e altro; qui le facce delle persone sono tutte sorridenti e spensierate, nel viso di ciascun passante è dipinta una giocosa ilarità. Il flusso di gente non cessa mai, nemmeno con il brutto tempo, le persone continuano imperterrite a girare, vagabondare, distrarsi, mangiando un buon gelato o un cannolo caldo appena sfornato. Sì, perché verso le undici in una via adiacente alla chiesa di Sant’Andrea, la pasticceria sforna un’infinità di golosissimi cannoli caldi alla crema.


Solo l’odore ci fa ingrassare, ma il sapore è talmente sublime, che uno stravizio ce lo possiamo concedere; e vale la pena venir qui per gustarlo.


Stavo divagando, perdevo il filo del discorso, nel mio cervello guizzavano immagini e pensieri involontari che sgorgavano dalla profondità dell’anima.


Dovevo fermare i ricordi, dovevo prepararmi per affrontare la giornata, ma non potevo evitare che mi venissero.


Come riportata alla brusca realtà, decisi che era arrivato il momento di muovermi e prepararmi per affrontare il giorno zero.


Feci un bel bagno caldo e profumato prima di infilarmi la maschera di scena, primo complice della propria luminosità. Mi concessi alcuni minuti di piacere per me stessa, l’immersione in acqua calda rilassa e prepara ad affrontare una giornata decisamente intensa.


Usai dei microgranuli alla vaniglia, capaci di riflettere la luce che  conferiscono alla pelle idratazione e un brillante splendore. Appena aprii la confezione, l’odore mi riportò al giorno in cui avevo assaporato l’ultimo cannolo alla vaniglia.


 


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